“Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore”.
E Agostino non ne aveva, infatti non li sbagliava quasi mai. Di 21 tirati in Serie A, ne mise a segno 18, quasi tutti senza rincorsa. E non sbagliò nemmeno il penultimo calciato in giallorosso, quello più importante della sua carriera. Un missile terra-aria piuttosto centrale, ma scaraventato sotto la traversa a velocità supersonica, per non lasciare scampo al portiere avversario. La forza di quella spingardata, però, non fu sufficiente a mutare le sorti cui il destino aveva condannato la Roma quel giorno. In una data che, evidentemente, non avrebbe mai smesso di tormentare il protagonista di questo racconto. Ma partiamo dall’inizio.
Agostino Di Bartolomei nasce a Roma l’8 aprile del 1955, nel quartiere Tor Marancia. È nei campetti di questo angolo della capitale che Ago trascorre la fanciullezza, in un luogo che ha la libertà inscritta nel suo nome, e la dignità guadagnata con la sua storia. Questa zona dell’Urbe deve infatti il suo toponimo al personaggio mitico di Amaranthus, un liberto di epoca romana vissuto quasi duemila anni fa. Egli riuscì prima ad affrancarsi dalla schiavitù, poi a comprare una tenuta dalla famiglia dei Numisi, e infine a vivere di agricoltura nella villa che vi era presente. Sulle sue spoglie sarebbe sorta secoli dopo una borgata altrettanto tenace, capace di riscattarsi dal proprio degrado. Un degrado a cui il governo fascista l’aveva condannata sin dalla sua edificazione, avvenuta in periferia per relegarvi gli strati più poveri della società, sotto un regime in cui la miseria aveva dignità solo nei vuoti aforismi nella propaganda. Un degrado imposto dalla fatiscenza delle sue abitazioni, esposte quotidianamente al pericolo della semplice acqua piovana, che nei racconti di Alberto Moravia invadeva ogni spazio e annegava le speranze delle persone. Ma anche un degrado cui gli abitanti furono in grado di ribellarsi, ricostruendo il quartiere con gli strumenti della Repubblica, proprio negli anni in cui Ago costruiva il suo futuro.
E i suoi ultimi calci a pallone, come nel chiasmo di una poesia malinconica, ci ricorderanno un po’ i primi. Questi, dati sulla pozzolana del quartiere di Amaranto, quelli, assestati sull’erba salernitana dello Stadio Vestuti, dove Agostino concluse la sua carriera liberando gli amaranto dalla Serie C. Nel mezzo, una delle più grandi e luminose parabole sportive del nostro Paese.
Il giovane Dibba approda alla Roma nel ’68, mentre in Italia scoppiano le rivolte studentesche, e non prima di aver rifiutato la chiamata del Milan, troppo lontano dalla sua terra e troppo distante dai suoi sogni di tredicenne. Anche i rossoneri saranno destinati a tornare nella vita di Agostino, in questa storia piena di corsi e ricorsi, in cui il fato e la volontà non smettono mai di duellare sulla sua pelle e con le sue gambe. Lui però, intanto, cresce nel vivaio giallorosso, e completa la trafila delle giovanili vincendo due campionati primavera da capitano, insieme ai suoi concittadini Bruno Conti e Francesco Rocca. I futuri Marazico e Kawasaki. Non proprio due sconosciuti, insomma, destinati a vincere al suo fianco anche con la maglia della prima squadra. Casacca che Agostino, a dire il vero, negli anni di questi primi successi ha già cominciato ad indossare da un po’. In particolare, dall’aprile del 1973, esattamente due settimane dopo il suo diciottesimo compleanno. Ma è solo nel 1976, dopo una breve esperienza in prestito al Lanerossi Vicenza, che Ago si afferma alla Roma come un pilastro irrinunciabile della squadra degli adulti.
A proposito, in che veste? Beh, oggi forse lo definiremmo un mediano, in principio quasi centrocampista ma negli anni arretrato verso la difesa. Insomma: un centrale di spinta, che partendo dalle retrovie si conquista il fronte. All’epoca, però, la questione lessicale era più semplice da risolvere, e potevi definire l’uomo e il giocatore insieme. Di Bartolomei era un libero.
Dotato di grande acume tattico, una sopraffina visione di gioco, e l’irrefrenabile vizio del gol. Trascinatore in senso sia tecnico che umano, il suo unico limite in campo era di non disporre dello scatto dei numeri sette, ma nessuno se ne lamentò mai. La sua testa, infatti, correva veloce il doppio, e anticipava l’avversario anche dove non arrivavano i muscoli. Muscoli che, beninteso, si stavano semplicemente caricando in vista di una successiva bordata, che senza dubbio avrebbe scagliato più in là. E su cui il portiere avrebbe potuto fare ben poco.
Nel 1980 arriva il primo trofeo con i grandi, la Coppa Italia vinta ai rigori contro il Torino, dopo una lotteria memorabile decisa ad oltranza. In quell’occasione, il tiro dagli undici metri di Ago viene respinto, ma ci pensa il portiere Franco Tancredi a consegnare la coppa alla Roma, interrompendo un digiuno di vittorie durato otto anni (undici per i maligni). Nella stagione successiva riceve la fascia di capitano, cedutagli da Sergio Santarini, e vince di nuovo la Coppa Italia. Ancora contro il Torino, e di nuovo ai rigori. Questa volta, però, il ritorno si disputa nel capoluogo piemontese, e vede Agostino calciare ben due penalties. Il primo, al 62’ minuto di gioco, segnato. Il secondo, dopo i tempi supplementari, parato come l’anno precedente. Alla fine la risolve Falcão dopo l’errore del granata Ciccio Graziani, che per inciso aveva sbagliato anche nella finale dell’ottanta, proprio come Dibba.
Di Bartolomei, Graziani, Falcão, i rigori… La storia a volte insegna e molte dileggia, lanciando presagi incomprensibili sulla sorte infausta che attende le persone, con l’umorismo cinico e spietato di una maestra arcigna prima ancora che ignorata.
Agostino resterà alla Roma altri tre anni, vincendo uno Scudetto atteso per più di quattro decadi, e che probabilmente la città avrebbe meritato già al secondo anno della gestione Viola. Una gioia incontenibile, manifestata dalla capitale del mondo con un’esplosione di colori abbacinante, e che i tifosi sarebbero tornati a sperimentare solo diciott’anni dopo. Con un altro grande presidente e un altro grande capitano.
Mi domando però spesso quale fosse lo stato d’animo di Ago in quella primavera dell’83. Senza dubbio soddisfatto per il traguardo raggiunto, orgoglioso dei suoi colori, e felice per la sua gente. Ma cosa succedeva nei cantucci più remoti della sua anima? Cosa nascondeva quel volto austero e sempre corrucciato? Negli anni precedenti al successo, così come in quelli successivi, quali sentimenti muovevano il pensare incessante di Agostino?
Nella sua vita, vi è mai stata luce?
Sicuramente non è mancato l’impegno ed il coraggio. Da capitano, silenzioso ma autorevole, severo ma comprensivo, ha condotto i suoi compagni alla vittoria. Da uomo, aveva deciso che non soltanto il calcio avrebbe dovuto animare la sua esistenza.
Dopo il diploma, conseguito anzitempo nel luglio ’73, il suo primo sogno fu quello di diventare medico. Resosi presto conto dell’incompatibilità di questa missione con il mestiere di calciatore, cambiò strada e si iscrisse alla facoltà di scienze politiche. Sembra che il suo reale obiettivo per il futuro fosse quello di diventare giornalista. L’intelligenza e la sensibilità lo distinguevano dalla maggioranza dei suoi colleghi, e questo forse lo rese poco simpatico a una parte degli addetti ai lavori, e inizialmente persino ai tifosi. A tal riguardo, è meglio fermare la narrazione per un istante ed ascoltare direttamente la viva voce di Agostino, cui certo non mancavano le parole per raccontare sé stesso: "Credo mi abbia giocato un brutto servizio il fatto che mi piace molto studiare e aggiornarmi, interessarmi di tutto… Mi piace molto anche la letteratura: italiana, russa, romanesca. Sono un cultore appassionato di Trilussa e di Belli, autori di poesie bellissime e tristi al tempo stesso, che hanno il pregio di descrivere con impietosa precisione l'animo del romano. E non è vero che il romano sia un allegrone; è soprattutto triste perché è consapevole della sua decadenza dai tempi in cui dominava il mondo a oggi".
Il capitano della Roma leggeva poesie, ammirava i dipinti di Guttuso, e scrutava la tristezza nell’animo dei suoi concittadini. Introverso e riflessivo, era agli antipodi rispetto ai personaggi da copertina che invadevano quell’Italia affacciata sul postmoderno. Lui lo si amava più facilmente da vicino che da lontano. Gli altri, il contrario.
Ma a creargli problemi, e forse a determinarne la fatale solitudine, non furono solo le parole non dette, ma soprattutto quelle espresse fermamente. La politica, si sa, è scomoda e scivolosa, ed è meglio non occuparsi dei fatti del mondo se non lo si fa per professione. Però Agostino non era d’accordo. E così, ad esempio, alla vigilia del Mondiale del 1978 in Argentina, decise di sottoscrivere l’appello di Amnesty International che denunciava la violenza del regime di Videla. Fu il primo a farlo fra tutti i calciatori italiani, e uno dei pochissimi. In quell’occasione, rilasciò al quotidiano Paese Sera delle dichiarazioni coraggiose e lapidarie, che ne descrivono la statura morale e l’assenza di peli sulla lingua: “Non è possibile tenere gli occhi chiusi. Ho firmato questa petizione perché si deve dare una mano a chi è in difficoltà, e in questo momento gli argentini ne hanno bisogno. È una questione di coscienza individuale. Alcuni sportivi fanno finta di essere ignoranti. Il calcio è una bella giungla dove puoi vivere nascosto, dove le cose importanti sono i gol e il resto non conta”.
Per quel mondiale non verrà convocato, e nemmeno per quelli successivi. A dirla tutta, non indosserà mai la maglia della nazionale maggiore. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Come nella pellicola di Danny Boyle. Forse perché non c’è un perché, come in ogni disavventura esistenziale. O forse, più prosaicamente, perché così si decise allora.
L’interesse di Agostino per la politica, peraltro, non si limitava a questioni internazionali, tanto drammatiche quanto lontane nello spazio. Fabio Caressa, a tal proposito, un paio di anni fa lo definì “un uomo di sinistra”, e addirittura dichiarato elettore del PdUP. Un dipinto in netto contrasto con la narrazione giornalistica del tempo di Ago, che al contrario lo voleva democristiano. Il portale web “Spazio70”, che da quasi tre lustri si occupa di raccontare l’Italia degli anni di piombo e non solo, ci aiuta fare un po’ di chiarezza a riguardo. In un articolo presente sul sito, infatti, è riportata un’intervista rilasciata da Dibba nell’ottobre del ’78, in cui egli affronta proprio il tema della politica. Dopo aver ribadito come il mestiere di sportivo secondo lui non escluda l’impegno in questo campo, si lascia andare ad una conclusione più personale. In maniera un po’ laconica ma tutt’altro che ambigua, dichiara: “Tendo a una sinistra moderata”.
Ma ritorniamo al calcio.
Dopo lo Scudetto, la Roma concentra le energie della stagione 1983-84 verso l’obiettivo più grande in assoluto: la conquista della Coppa dei Campioni. Che mancherà per un soffio, nella maniera più crudele e beffarda possibile. In casa, ai rigori, sotto la Curva Sud. Era il 30 maggio 1984, e quella volta Agostino dagli undici metri andò a segno, ma non fu sufficiente. E più non dimandate.
L’annata si conclude comunque con un trofeo: la quinta Coppa Italia della Roma, alzata al cielo da capitan Di Bartolomei e dall’allenatore dello Scudetto: il Barone Liedholm. Una coppa ovviamente ricolma di rimpianti, con la quale entrambi salutano Roma e i suoi tifosi. Lo svedese tornerà, per ben due volte. Il crepuscolare campione romano no.
Sulla panchina della Roma è infatti arrivato un altro svedese, Sven-Göran Eriksson, che non ritiene il capitano adatto al suo gioco, e che perciò ne richiede la cessione.
Dibba segue allora Liedholm al Milan, vestendo la maglia rossonera per tre anni. Durante quell’esperienza non solleverà trofei, lasciando una delle squadre più titolate al mondo poco prima che iniziasse la sua era più luminosa: il periodo dei trionfi europei. Quella coppa, evidentemente, il fato vuole negargliela a tutti i costi.
Vi fu lo spazio, però, per affrontare di nuovo la sua Roma, e addirittura segnarle.
L’esultanza che seguì il gol morse il cuore dei suoi ex tifosi, o per meglio dire degli eternamente tali, provocandovi una ferita profondissima; destinata ad essere rimarginata ma solo a tempo debito. D’altro canto, l’amore dei tifosi per Agostino era stato immenso, e immensa la generosità con cui lui aveva ricambiato. Proprio per questo la separazione generò un dolore lancinante da entrambe le parti, e la rabbia mostrata a San Siro altro non fu che l’espressione di questa sofferenza. Nell’esultanza Ago liberò un grido disperato, quello che si riserva all’amore tradito o al presunto tale, più per sfogare la nostalgia che per affermare la rivalsa. Ma a Roma, naturalmente, erano i tifosi che ritenevano fedifrago lui. E così, nella partita di ritorno all’Olimpico, vi fu addirittura lo spazio per una scazzottata tra lui e Graziani, tornati avversari come al tempo delle finali doppie ed interminabili.
Nel 1987 passa al Cesena, con cui disputa la sua ultima stagione in massima serie, conclusasi con la salvezza dei romagnoli. L’estate successiva si trasferisce alla Salernitana, saltando a piè pari la cadetteria e catapultandosi direttamente nel penultimo livello del professionismo nazionale: la Serie C1. Come anticipato nelle prime righe, Agostino non passerà inosservato nemmeno qui. Con la fascia di capitano al braccio, in due anni conduce i campani alla storica promozione in Serie B, campionato lasciato dai granata addirittura nel 1967. Raggiunto quest’ultimo traguardo, Ago decide di abbandonare il calcio giocato, all’età di trentacinque anni.
Dopo il ritiro si trasferisce a San Marco, frazione di Castellabate nonché paese d’origine della moglie, Marisa. Qui comincia con lei l’ultimo capitolo della sua vita, stretto nell’affetto di una famiglia che comprendeva anche due bambini: Luca, nato dall’unione dei due, e Gianmarco, l’altro figlio di Marisa, che Ago aveva accolto come suo e cresciuto da padre.
Sulle coste del Tirreno il campione decide di fondare una scuola calcio, che oltre a insegnare il pallone ha come compito quello di trasmettere ai giovani i valori cui egli ha ispirato la sua vita: la lealtà, il coraggio e l’impegno. Cioè tutte quelle virtù che spesso aveva visto mancare intorno a lui. “A me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio”, diceva, “ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi”.
La storia di Agostino si conclude nel modo peggiore possibile. La mattina del 30 maggio 1994 si alza molto presto, saluta il figlio Luca che sta uscendo di casa per andare a scuola, e infine si siede in terrazzo dove può osservare il mare. Si punta una calibro 38 dritto al cuore e spara.
Il buio.
Ago ha deciso di abbandonare la vita. Lo ha fatto perché si sente "chiuso in un buco", come recita il bigliettino scritto per motivare quel gesto. E lo ha fatto esattamente nel decimo anniversario di quella finale.
Troppo lontano da quel pallone a cui aveva regalato tanto, e che ora lo aveva abbandonato.
Troppo fragile per tollerare ancora l'indifferenza del mondo.
Troppo solo.
Oggi sarebbe un uomo di neanche settant'anni, probabilmente molto diverso dalla maggior parte dei suoi ex colleghi, e avrebbe ancora tanto da dire su tutto ciò che lo appassionava. Il calcio, la politica, la scrittura, le persone, la vita. La sua Roma.
Ma fermiamoci qui: ragionare al condizionale è un esercizio inutile e doloroso, soprattutto in questa città così malinconica.
E allora mi piace pensarlo per quello che è stato e che sarà per sempre: il nostro Capitano.
Un capitano silenzioso, che in campo parlava coi fatti, ma fuori si esprimeva a chiare lettere.
Un capitano coraggioso, più di quelli di Kipling, che ha portato il suo equipaggio in porto col vessillo.
Un capitano pensieroso, cresciuto sulle nostre strade, dove il suo nome non smetterà mai di essere evocato.
Ma anche un uomo spirato troppo presto, di fronte alla bellezza insopportabile del Cilento.
Nel mezzo, migliaia di calci alle paure: le sue e le nostre insieme.
Oh Agostino!
Ago Ago Ago Agostino gol!
Oh Agostino!